Dalla finestra


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L’uomo spiando dalla finestra vide una piccola folla di report. Sentiva suonare il campanello. C’era una scuola proprio di fronte e così quando i ragazzi uscirono al suono della campanella molti furono stupiti di quell’inusuale assembramento di microfoni.
Microfoni e telecamere, questo vedeva l’uomo. Non c’erano volti o corpi dietro di essi. Unica cosa che scorgeva erano i fili attorcigliati che si collegavano ai furgoni parcheggiati lungo la strada. Fili che proseguivano attraverso percorsi inesplicabili raggiungendo le sedi televisive.
L’uomo dalla finestra si sentiva stanco dopo neppure un’ora che i giornalisti si erano piazzati sotto casa sua.
Era iniziato per caso. Un film girato a basso costo, che aveva aperto lunghi dibattiti. I primi tempi aveva partecipato a trasmissioni in cui veniva osannato e screditato. Poi, forse per rabbia, forse nella confusione, aveva palesato le sue idee. Quando vennero fatte ulteriori richieste di chiarimenti e comprensioni, lui scrisse sul suo blog un lungo post in cui chiariva inopinabilmente cosa c’era dietro il film.
Molti rimasero scandalizzati, non furono pochi i fan del film che ritrattarono gli elogi fatti allo soggettista. Persino attori e operatori espressero un pessimo giudizio. D’un tratto il celebrato genio di Leopold Leonelli venne messo seriamente in dubbio.
Stressato dalla calca, si affacciò per farla finita con tutta quella assurda storia.
«Avete letto il post? Quindi, cosa volete sapere ancora?»
Da sotto una voce domandò di rimando «come mai non ha spiegato prima le reali tematiche del film? Non pensate di aver preso in giro i suoi stessi fan?»
«Credete che abbia senso spiegare il significato di una storia? Ognuno l’interpreta a modo suo. E ora gradirei che ve ne andaste. Questo non è un studio televisivo ma una strada pubblica.»
Ma un’altra voce, incurante delle lamentele si fece sentire «davvero ritenete di non avere nessuna responsabilità? E se succedesse qualcosa? Se qualcuno prendesse alla lettera le vostre affermazioni?»
«Non sono qui per ripetere quanto ho già spiegato; la responsabilità non esiste, come non c’è spazio per la colpa o l’innocenza. E ora piantatela di fare trambusto, state dando proprio un bello spettacolo davanti a dei ragazzini» e così dicendo l’autore fece per entrare, fermandosi nell’udire una voce pacata che poneva una domanda lecita.
«Mi scusi, ma se crede realmente in quanto ha scritto, allora non siamo responsabili delle nostre azioni, stiamo solo facendo ciò che il destino ha previsto, non le pare?»
L’uomo chiuse la finestra, evitando di sbatterla per evitare di dare a vedere di essere stato punto nel vivo. In fondo era vero, l’ultima domande era sensata, eppure era caduta su di una sciocca banalità.
Destino, cosa c’entrava il destino? Era tutto preordinato, tutto già designato e previsto? Per uno specifico volere? No, non era questo ciò di cui aveva parlato nel suo post.
Ma quanti avevano realmente letto per intero la sua confessione? Quanti sapevano la differenza tra soggetto e sceneggiatura? Da quando gli era sfuggita quella maledetta verità dalle labbra, era stato accusato di errori grossolani. Era colpevole di battute poche efficaci e di inquadrature inutili. Lui, della sceneggiatura ne sapeva ben poco, se non fosse stato per un amico regista cui era piaciuto il testo, quella storia sarebbe rimasta un racconto fra tanti nel suo blog.
Non aveva voluto saperne niente della sceneggiatura, a patto che le parti descritte in dettaglio non venissero cambiate. Partecipava alla riprese saltuariamente, e solo quando c’era bel tempo. Lui era l’autore del soggetto, e rinfacciargli imprecisioni tecniche era insensato. O meglio, un pretesto per attaccare lui e la sua opera.
Per distrarsi si preparò da mangiare. Neppure fece caso all’acqua che strabordò, fin quando il fornello non si spense. Meccanicamente accese il fuoco affianco spostando la pentola sopra di esso. Attese che bollisse di nuovo quindi gettò un pugno di sale grosso. Cotta la pasta vi buttò sopra del sugo già pronto, ripensando a quando faceva la stessa cosa con il tomato frito durante il suo soggiorno all’estero.
Sedendosi per mangiare si imbatté nella sedie vuota che aveva di fronte. Lei non c’era più. E certo non sarebbe tornata. Ricacciò indietro tutti quegli inutili ricordi che stavano cercando di fuoriuscire, alzando al massimo il volume dello stereo.
Poi arrivò l’altra. Suonò il campanello più volte, ma ovviamente lui non aprì ritenendo che fosse l’ennesima carica dei telecronisti. Quando squillò il telefono e vide il mittente del messaggio capì che le due cose erano collegate. Senza neppure preoccuparsi di leggerlo, posò il telefono, prese le chiavi, e scese ad aprire il portone principale della palazzina.
La donna entrò e subito lui richiuse il portone dietro sé. Lei era una vedova, piuttosto intelligente, nonché madre della sua ex-ragazza. Rivide nuovamente il loro primo incontro, quando Mary gli aveva presento una donna bassetta e grassottella, che lo guardava con aria valutativa e insondabile.
Di primo acchito gli venne da domandarsi come potessero quelle due avere dei geni in comune. Poi notò il colore rossiccio dai riflessi dorati e il dubbio evaporò via velocemente.
«Sai dov’è finita Mary?» gli chiese lei a bruciapelo.
«Sarà da qualche amica…» replicò lui senza convinzione.
«È mia figlia!»
Già, e a pensarci prima tutto questo non sarebbe successo.
«Perché sei venuta? Con tutta questa folla? Vuoi metterti in mostra anche tu?» Quell’ultima frase gli uscì d’istinto, se la sarebbe rimangiata volentieri se un ceffone ben calibrato non gli avesse chiuso la bocca immediatamente.
«Sei proprio un idiota, lasciarti uscire simili stupidaggini! Ringrazia solo che non sono una ragazzina.»
Il silenzio che seguì bruciò a Leopold tanto quanto la guancia. Così, due volte ferito si fece trascinare per le scale dalla donna. Giunto al pianerottolo di casa, aprì lasciandola passare per prima, come galanteria vuole.
Lei lo fissò negli occhi prima di entrare e sedersi sul divano.
«Allora? Dov’é?» lo interrogò.
«Dov’é? Credi davvero che lo sappia?»
La donna si accasciò sul cuscino del divano.
«E adesso, cos’é questo? Davvero mi stai chiedendo di sentirmi in colpa?
Su dai, non essere ridicola, dopo tutto questo mi vieni a dire che ti senti in colpa; ora?»
Così le si infilò tra le rotondità, stuzzicando la pelle, strizzandole il seno.
«No, non ora, non posso.»
«Ancora i sensi di colpa che bloccano. Quando mai smetteremo di sentirci perseguibili di errori che non ci appartengono?»
«No, Leopold, lei è mia figlia, lo capisci? Ho fatto fuggire una figlia.»
«Tutte a quell’età se ne vogliono fuggire di casa, Ribatté lui riprendendo a palparle il corpo, «quello che ha fatto dimostra solo che lei è più capace dei suoi coetanei.» Le dita scivolarono lungo i fianchi della donna infilandosi nelle mutande. «Era solo un gioco, che diavolo, era una ragazzina, cosa volevi ci facessi?» Le carezzò il pelo pubico ritmicamente con qualche tocco di tanto in tanto che bloccava il respiro della rossa. «Dentro di te si avvitano sentimenti contrastanti» un respiro più profondo rivelò i primi cedimenti. «Piangi se vuoi, puoi anche urlare, arrabbiati per la tua impotenza e fragilità. Ma tu sei tu.» Un grido lezioso interruppe il discorso dell’uomo. «Io sento il tuo piacere, è sulle mie mani, lascia che sciolga i tuoi nodi emotivi, molla la presa.» E così dicendo rigirò mignolo e anulare appena sotto la pelle dell’inguine. «Era tua figlia, ma era anche la tua rivale, e tu hai vinto, gli servirà di lezione, imparerà e sarà pronta per la prossima volta.» L’indice scese a fondo per risalire dopo un attimo. «Stiamo giocando, il gioco del sesso.»
«Nulla a che fare con l’amore, vero?» replicò lei ansimando.
«No, che c’entra. Certo che oggi sei proprio calda, non eri mai andata in fibrillazione per una leggera toccatina.»
«Non sono proprio al massimo della mia stabilità emotiva, se consideri» una pausa sommessa quando Leopold le stuzzicò il grilletto, «tutto quello che ci sta accadendo. E…»
«E non parlo solo di me.»
«Ma sì, ti capisco, anch’io non sono proprio al massimo considerato quegli uccellacci che mi volteggiano sul portone.
E poi non capisco più, avevo deciso di smettere di scrivere e mi capita invece…»
Lui sospira «dio, non so neppure che cosa, come… Ma che vado a pensare poi, di parlarne, no, meglio se ci godiamo questo momento di intimità e il resto se ne può anche andare.»

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 «Di cosa mi stavi parlando prima?» domandò la donna. «Perché non ne vuoi parlare?» domandò lei sdraiata nel lettone affianco a lui.
«Perché non ha senso. Io ho smesso di scrivere e invece… che serve, se ogni cosa è data, scrivere o no non può neppure essere considerata una scelta, ma solo uno schiribizzo del caso. I nostri geni, sono frutti di un incontro e di uno schizzo. le nostre menti… C’è anche da dire…»
«Calma, una cosa per volta, lo sai che mi piace che tu sia una persona complessa, ma andiamo con ordine.»
«No, nessun ordine, come vuoi imporre un percorso rettilineo in un flusso di pensieri?
Grazie, ora puoi andare.»
«E mi mandi via così?»
«Non preoccuparti, a breve me ne andrò via anch’io.»
«E dove?»
«Ci penserò. Devo solo sparire.»
La rossa lo guardò. Il bacino rivolto verso l’uomo, i suoi occhi viaggiarono lungo il letto per poi fissarsi al soffitto quando una sua giravolta la riportò in posizione supina.
«Finisce così, allora?»
«Non era una storia a lunga durata.»
«Già, una piccola illusione di mezz’età. E per un paio di scopate mia figlia ora mi odia.»
L’uomo non ribatté. Si alzò e andò al bagno. Accese la doccia, e si auspicò che il getto tiepido portasse via i pensieri in uno scroscio.
Da dove arrivano le favole che ci raccontiamo? come sorgono? perché ci crediamo? Leopold continuava a non avere risposte, ne speranza che il sogno, la doccia, o il sesso riuscissero a strapar via una parte, seppur piccola, di quei quesiti.
Cosa sarebbe dopo? Come l’avrebbero ricordato?
Ma in fondo sapeva che non aveva importanza, che lui era già lontano dalle persone, in quanto non sentiva più nulla in mezzo a loro. Anche gli applausi erano solo echi stantii di una massa informe. Persone come poltergeist, separati da lui, appartenenti ad un’altra dimensione, quella dell’uomo. Lui dal canto suo, sentiva di non essere più con loro, lo sentiva ben prima che quella cosa accadesse, e ora, forse ancor di più. Sin da piccolo aveva maturato una strana padronanza di se stesso. Aveva perso il gusto a 8 anni senza che nessuno medico riuscisse a darne una spiegazione. Qualcuno buttò lì l’ipotesi che lo stress avesse causato un simile danno, ma erano tentativi incerti, più una scusa per liberarsi di un paziente scomodo che una reale diagnosi.
Poi il gusto era tornato, a distanza di anni aveva ricominciato ad assaporare i piatti, riscoprendo un mondo dolce e amaro.
Ma lui sapeva. Potevano anche ignorarlo gli altri, ma la risposta se la portava dietro da sempre. Conosceva cosa l’aveva spinto a spegnere il proprio palato, seppure inconsciamente. Capì così che la realtà era solo una concatenazione di eventi, e che la volontà era incontrollabile e, in definitiva, una farsa.
Lo riportò alla realtà il battere della porta che si chiudeva. Non era una proprio uscita furiosa, ma comunque vi era stata impressa una certa energia. Aprì la cabina della doccia, osservò le gocce sul vetro, piegarsi, unirsi e cadere giù. Tutte, cadevano verso il basso. Era la base di tutto, il magnetismo, la gravità, il peso che ci spinge ogni volta, a qualunque incrocio, arrestandoci a tratti. Quanto era stata gravida di mistificazioni quella sua prima scoperta della sua realtà?
Gli piaceva da sempre tergiversare con le parole, gravità delle cose, gravosità dell’essere, gravidanza… giochi di parole di una lingua ignota a buona parte delle persone.
Persone divise dalle lingue, da continenti, dall’illusione di culture diverse. Nazioni separate, i cui confini però non rispecchiavano affatto le differenze culturali. Lui non ne sapeva molto, ad un cero punto si era voluto proprio fermare, e rimandare tutto al creatore. Che ci pensasse lui, lei, o qualunque altra cosa, fosse anche un concentrato di materia informe all’inizio del tempo.
Con l’accappatoio addosso si spostò nella camera asciugandosi i capelli.
Poi tornò al tavolo e le lettere ripresero a fuggire. Si stampavano senza volerlo sulla carta, debordando a volte sul tavolo. Di fatto il tavolo era oramai costellato con cicatrici di caratteri interrotti.
Era una sorta di marcamento a fuoco del piano, qualunque esso fosse, vetro, carta, legno, in alcuni casi persino sulla sua pelle. Non ne aveva il minimo controllo, seppure fortunatamente non era mai successo in presenza di altri.
Tuttavia riteneva fosse meglio evitare che accadesse, per cui aveva preferito dare un taglio alla relazione con la madre di Mary. Qual’era poi il suo nome? L’aveva mai chiamata senza usare vezzeggiativi o giochi di parole? Dov’era poi la sua memoria?
No, non sapeva più quale direzione prendere, ma non importava, avrebbe scelto l’istinto.

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6 pensieri su “Dalla finestra

  1. Cinicitá nera, intensa, malata, a tratti orritante e a tratti compassionevole. Una figura ambigua tanto che infastidisce i miei limiti, me li ha sbattuti in faccia senza ritegno. Doloroso e incontrollabilmente sensuale. Tolgo il cappello e cerco di riprendermi. Indimenticabile.

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    1. ad un commento così preciso e dettagliato è difficle rispondere.
      Sicuramente sono molto contento che la lettura attragga persone che dimostrano una notevole acutezza.
      anche in Giano ci sono molti passaggi simili a questo, ma per ora non li ho ancora inseriti… i due già presenti sono eccentrici ma privi di ruvidità
      grazie

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